La ricerca genetica ha reso possibili terapie che prima sembravano dei sogni. Tramite la mappatura dei geni, e con le nuove tecnologie di editing genico, è diventato possibile identificare il segmento di codice genetico “malfunzionante”, isolarlo e “riscriverlo” in modo che la cattiva codificazione alla base della malattia sia, semplicemente, cancellata e sostituita da una codificazione corretta. Per i pazienti, questo significa smettere di “curarsi” (con trasfusioni, dialisi, trattamenti, trapianti) e affrontare invece l’evento più sperato ma anche quello cui si è più impreparati: guarire. Può sembrare strano pensare che guarire da una malattia invalidante sia un problema. Ma nulla viene senza un prezzo, e il prezzo della guarigione è “una vita normale”, una vita nuova che non si conosce, cui non si è preparati, che non si sa come gestire. Una vita con una quantità enorme di tempo per sé, senza medici e ospedali; una vita senza ausili e senza più sussidi, perché si è improvvisamente diventati sani. Una vita in cui tutte le relazioni chiave devono ristrutturarsi intorno a un nuovo sé, a una persona nuova che vive una vita diversa dalla precedente.
Qual è il fine della ricerca farmaceutica? Prevenire, curare e, se possibile, guarire le persone dalle malattie. Bene, ma è tutto lì? Forse no, forse quando la guarigione innesca nuove sfide, è giusto che la cura porti con sé anche le premesse per gestire queste sfide. È con queste motivazioni che una casa farmaceutica multinazionale ha voluto completare il proprio percorso di ricerca e sviluppo, durato anni, con un progetto particolare.
Partendo dalla esperienza portata da due importanti associazioni pazienti con migliaia di associati in tutta Italia, è stato costituito un “advisory panel”, un gruppo di “pazienti esperti” che si sono incaricati di ragionare, scavare nei meandri delle nuove sfide portate, questa volta, non dalla malattia ma dalla guarigione. E che hanno cercato, loro per primi, di rispondere a domande difficili. Con quali criteri si dovrebbe decidere quali tra i pazienti dovranno ricevere la terapia per primi? È giusto che una persona che non ha mai potuto lavorare e che per questo riceve un sussidio da tutta la vita, lo perda improvvisamente perché è guarita? Come si fa a passare dalla paura quotidiana di morire a un desiderio di vita così forte che si spinge fino a voler mettere al mondo dei figli?
In tre incontri, queste domande e tante altre sono state poste. Sorrisi e lacrime hanno marcato il tempo passato insieme. I pazienti hanno insegnato ai manager della casa farmaceutica cosa significa vivere con la malattia, e cosa potrà significare guarire. I nostri report hanno dovuto fare spazio ai sentimenti, ma anche a tante proposte concrete: di servizi accessori, di percorsi di accompagnamento, di strumenti informativi per spiegare, aiutare, assistere. Insieme, abbiamo dato forma alla strada che tante persone potranno finalmente percorrere.
Camilla Ciani, Project Manager di Poliste
“Quando abbiamo iniziato questo progetto sapevamo di dover affrontare sfide enormi, ma incontrare i pazienti, ascoltare le loro storie e vedere la determinazione con cui affrontano ogni giorno la malattia, ci ha davvero ispirato. Abbiamo imparato tanto da loro e insieme sentiamo di aver costruito qualcosa di davvero significativo per la comunità.
Il progetto ci ha insegnato che la ricerca farmaceutica non può fermarsi alla scoperta di nuove terapie, ma deve anche considerare l’impatto che queste avranno sulle vite delle persone. Ed è proprio questo il cuore del nostro impegno: imparare a guardare oltre i risultati clinici e considerare l’aspetto umano della cura per migliorare la qualità di vita dei pazienti. È stata un’esperienza che ha profondamente trasformato il nostro modo di concepire il ruolo del consulente nel mondo della ricerca farmaceutica, ed è un modello che speriamo possa ispirare anche altri professionisti del settore.”